Il diritto alla disconnessione del lavoratore subordinato: disciplina e responsabilità del datore di lavoro

16 aprile 2025

Il diritto alla disconnessione, in ragione del quale ogni dipendente ha il diritto a non essere reperibile al di fuori dell’orario di lavoro, nasce al fine ultimo di garantire un bilanciamento ottimale tra vita professionale e vita privata del lavoratore.

In particolare, l’evoluzione digitale e l’avvento del lavoro agile, lo smart-working, hanno contribuito a costruire una figura di lavoratore costantemente “connesso”, determinando rischi al benessere psico-fisico. Vi è infatti la possibilità che il lavoratore, sprovvisto di informazioni con riferimento a termini e modalità della propria disconnessione, sia esposto a un continuo scambio di comunicazioni, o veri e propri ordini, e possa conseguentemente manifestare disturbi di natura psichica e fisica quali, a titolo esemplificativo, stress lavoro-correlato, dipendenza da lavoro, sindrome da burn-out, tecnostress e i rischi connessi alla costante e prolungata esposizione ai dispositivi elettronici.  

Queste ragioni hanno spinto diversi Paesi europei a ricercare delle soluzioni normative, volte a regolamentare il lavoro agile e, in generale, l’utilizzo degli strumenti elettronici sul posto di lavoro, così escludendo che, al di fuori dei limiti di orario contrattuale, il lavoratore possa essere esposto a ulteriori impulsi provenienti dall’ufficio. Ad esempio la Francia, per prima, attraverso la “Loi du Travail” ha imposto alle aziende con più di 50 dipendenti di regolamentare la reperibilità digitale attraverso accordi interni, mentre la Germania e la Spagna hanno adottato misure di tutela del diritto del lavoratore a non rispondere a comunicazioni fuori dall’orario di lavoro.

In Italia è stata introdotta la Legge n. 81/2017, che disciplina il “lavoro agile” (smart-working), quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa. In particolare, l’accordo tra le parti individua altresì i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro». Il diritto alla disconnessione, dunque, non è riconosciuto a livello normativo, ma trova tutela attraverso i soli accordi tra privati.

Ultimamente, peraltro, si è discussa in Parlamento l’introduzione di una disciplina normativa (Ddl Sensi) volta a introdurre due principi generali sul tema del diritto alla disconnessione: un limite orario di 12 ore di riposo tra i turni e il diritto di non ricevere comunicazioni dal datore di lavoro o dal personale investito di compiti direttivi nei confronti del lavoratore stesso al di fuori dell’orario ordinario di lavoro. Inoltre, sono previsti obblighi specifici per le imprese con più di 15 lavoratori e alte sanzioni alle imprese per la violazione. Il disegno di legge mira, in maniera evidente, a introdurre nell’ordinamento un vero e proprio diritto alla disconnessione, tutelando la sfera privata attraverso la demarcazione di precisi confini tra vita e lavoro.

Con riferimento alle responsabilità che possono sorgere in capo al datore di lavoro, al momento è affidata alla negoziazione contrattuale privata l’individuazione dei termini per parlare di risarcibilità del danno per violazione del diritto alla disconnessione.

Sembra evidente che il datore di lavoro che non predisponga le dovute tutele, nei confronti del lavoratore, potrebbe rispondere ai sensi dell’art. 2087 c.c., che disciplina l’obbligo del datore di lavoro di adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Si configurerebbe, in tal senso, un danno lavorativo, con obbligo del datore di lavoro al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, scaturiti dalla violazione stessa. A titolo esemplificativo, il datore potrebbe essere chiamato a rispondere dello stress-lavorativo, del tecnostress, della sindrome di burn-out, etc, se questi venissero adeguatamente dimostrati in giudizio dal lavoratore.

Vi è anche da considerare la possibilità che la violazione del diritto alla disconnessione derivi da fatti posti in essere non dal datore, ma dai colleghi. In questo caso, mentre al datore potrebbe essere imputata la culpa in vigilando, i dipendenti potrebbero essere invece chiamati a rispondere ai sensi degli articoli 2043 e 2059 c.c.

Un’ultima considerazione deve infine essere sviluppata con riferimento a una specifica categoria di lavoratori subordinati. In ogni azienda esistono funzioni apicali, di vertice e dirigenziali, che evidentemente possono essere impegnate, in momenti particolarmente delicati, organizzativi, strategici, di rendicontazione e di controllo, anche al di fuori del normale orario e delle giornate di lavoro previste contrattualmente.

Le riflessioni sul tema devono essere condotte soprattutto in ordine all’onnicomprensività della retribuzione corrisposta, specialmente quando questa si attesti ai limiti dei minimi tabellari previsti dalla contrattazione collettiva per i dirigenti, al fine di chiedersi se la misura della retribuzione dirigenziale sia sufficiente non solo a escludere il diritto alla disconnessione, ma altresì il compenso per il lavoro straordinario, festivo e talvolta notturno, prestato dai dirigenti.

In merito, la giurisprudenza ha da tempo riconosciuto la necessità di una valutazione concreta dell’attività svolta dal dirigente al di fuori dell’orario di lavoro, al fine di stabilire il diritto allo straordinario.

La Corte di Cassazione ha per esempio affermato che al dirigente spetta lo straordinario quando la durata delle prestazioni aggiuntive richieste si prolunghi in maniera tale da creare una mancanza di equilibrio rispetto alle effettive e specifiche esigenze dell’azienda cui il dirigente è addetto (Cass. n. 16041/2008).

Il compenso per il lavoro straordinario, inoltre, può spettare al dirigente quando gli vengano richieste prestazioni prolungate con carattere di continuità, oltre un certo limite, in contrasto con il diritto costituzionalmente protetto al ripristino delle energie lavorative oppure quanto sia la stessa contrattazione collettiva a stabilire un orario normale di lavoro e tale orario venga in concreto oltrepassato dal dirigente (Cass. n. 12687/2016).

Alla luce di quanto esposto, si ricava che, in favore del dirigente, ove risulti che le prestazioni da lui svolte – sottratte, in virtù del suo ruolo, ai limiti propri del normale orario di lavoro – abbiano assunto dimensioni temporali contrarie alla prassi aziendale, abnormi o comunque eccedenti il limite della ragionevolezza a causa della maggiore gravosità e della natura usurante dell’attività lavorativa, spetterà un compenso.